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LE SCOMODE VERITÀ DI VINCENZO DI MICHELE

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Redazione-  Vincenzo Di Michele, già autore di successo di libri come Io, prigioniero in Russia, Mussolini finto prigioniero al Gran Sasso, L’ultimo segreto di Mussolini, Cefalonia, io e la mia storia, Alla ricerca dei dispersi in guerra, per citarne solo alcuni, ci presenta la sua ultima fatica di ricercatore instancabile di episodi dell’ultima guerra mondiale, dramma che ha segnato due generazioni di italiani, quella dei nostri padri e quella dei nostri nonni, e i cui echi terribili ancora non si spengono. Le scomode verità nascoste nella II guerra mondiale è il titolo del libro, composto di undici brevi ma densi capitoli, appena pubblicato per i tipi di Edizioni Vincenzo Di Michele.

Nel libro, accanto ad episodi già noti e controversi (come la complicità, che l’autore ipotizza con argomenti convincenti, tra i comandi italiani e quelli tedeschi in ordine alla rocambolesca liberazione di Mussolini prigioniero sul Gran Sasso il 12 settembre del 1943, nel contesto di una nazione allo sbando; o la tragedia, di poco posteriore, dei soldati italiani a Cefalonia all’indomani dell’armistizio di Cassibile, un eccidio immane di migliaia di soldati per la maggior parte poco più che ventenni che a giudizio di Di Michele, a dispetto di una certa retorica fiorita sul terribile episodio, «si poteva e doveva evitare »; o la sorte dei soldati in Russia, che l’autore del libro presenta come una pagina rimossa della storia nazionale), trovano posto argomenti scottanti e che mettono a dura prova il giudizio morale, come quando l’autore, al di là delle dirette responsabilità dei gerarchi nazisti, invita il popolo tedesco stesso a fare i conti con la propria coscienza; o quando non esita a mettere sul banco degli imputati il governo americano per lo sgancio, nell’agosto 1945, delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, che provocarono la morte istantanea di più di centomila persone e una scia di effetti collaterali sui sopravvissuti che durarono anni.

Un’ecatombe che Di Michele assimila ai crimini contro l’umanità, che si poteva, a suo parere, evitare e che, ben al di là delle esigenze strategiche contingenti, ai vertici politici e militari americani apparve utile – egli asserisce – come ostentazione di una potenza devastante da usare come deterrente nei confronti di futuri potenziali avversari.

Nella maggior parte del libro l’autore sciorina davanti ai nostri occhi una galleria degli orrori che lascia il lettore col fiato sospeso. Nel primo capitolo si parla delle donne schiavizzate dai nazisti e in particolare dell’atteggiamento sprezzante nei riguardi delle prostitute polacche.

Sul fronte orientale – si legge in una delle prime pagine – i tedeschi violentarono le donne russe […] (e) in Ucraina e Bielorussia rastrellarono e sterilizzarono le giovani donne e poi le assoldarono per soddisfare i desideri sessuali del loro esercito.

Si apprende che nella stessa Germania, ridotta a fine conflitto in un immenso campo di macerie, con milioni di morti e pochi uomini giovani sopravvissuti, molte furono le donne tedesche che,

…pur di dare un sostegno economico ai lori figli, intrapresero relazioni sessuali con i soldati delle forze alleate. Ragazze, vedove furono costrette a prostituirsi in cambio di soldi, calze, cioccolato, vari altri generi alimentari e capi di abbigliamento.

Accanto a sconosciute storie di ordinaria disumanità da parte dei nazisti (esperimenti, come quelli di Josef Mengele, che nulla avevano di scientifico e molto di gratuita malvagità), l’autore non manca di denunciare esperimenti spregiudicati su animali anche da parte degli eserciti alleati.

Nello scritto, tra il molto altro, si nomina di passaggio Adolf Eichmann, il “burocrate dello sterminio” catturato dai servizi israeliani e giustiziato, vicenda che ispirò alla filosofa Hannah Arendt il libro La banalità del male; si parla di Matthias Defregger, capitano della Wehrmacht, diventato poi vescovo, coinvolto nel giugno 1944, nella sua qualità di comandante, nell’eccidio di Filetto, frazione dell’Aquila, di cui ricorrono quest’anno ottanta anni; si rievoca la misteriosa scomparsa dello scienziato Ettore Majorana, avvenuta a fine marzo 1938.

E poi, a margine di tragedie che in parte si conoscevano, ci sono vicende meno note, drammi non conosciuti nella loro effettiva dimensione e spesso di raccapricciante gravità, anche a carico di soldati degli eserciti di liberazione, fatti che l’autore asserisce essere noti ai comandi alleati, come quello degli stupri praticati, anche nei territori italiani, dai marocchini, truppe assoldate dall’esercito francese.

Un quadro agghiacciante quello che descrive Di Michele. Quasi si stenta a credere di quanta disumanità sia capace il genere umano. L’impressione che si ricava dalla lettura di queste pagine è che la seconda guerra mondiale ha visto l’intelligenza al servizio del male come mai era accaduto nella storia della civiltà umana, e tutto questo è potuto avvenire nel cuore della civile Europa.

Le categorie economiche e gli stessi concetti filosofici sono insufficienti a spiegare tanto abominio, tanto spregio della persona umana. Lo stesso credente ha voglia di gridare: Dio, dov’eri? «Questa non è guerra, questa è... un’altra cosa, noi non lo possiamo capire » diceva Eduardo De Filippo riferendosi alla seconda guerra mondiale in una sua celebre commedia, interpretando la parte un padre di famiglia napoletano richiamato alle armi, e concludeva il suo appassionato racconto dicendo, quasi implorando, ai suoi: «Facciamo il bene! Facciamo il bene!». C’è da chiedersi, di fronte ai tanti tamburi di guerra che risuonano nel mondo e nel cuore stesso del nostro continente, in che misura l’umanità abbia appresa la tremenda lezione del secondo conflitto mondiale.

È un libro, quest’ultimo lavoro di Vincenzo Di Michele, che fa riflettere, e rispetto al quale non si può rimanere indifferenti. Una compassione, che a tratti diventa sdegno, percorre tutte le pagine. È prima di tutto un atto d’accusa nei confronti della guerra, anche quella apparentemente giusta, che si porta dietro un carico enorme di disumanità, e finisce per far apparire assai labile il confine stesso degli umani sentimenti.

Lo scritto di Di Michele evoca altresì una dinamica che vediamo agire, con maggiore o minore intensità, alla fine di ogni guerra, che è sempre, a ben riflettere, guerra civile, perché interna al genere umano: la comprensibile esigenza di giustizia finisce per confondersi con il desiderio della vendetta, e gli oppressi di ieri possono diventare gli oppressori di domani, come lucidamente ammoniva Simone Weil.

Un’altra amara verità emerge dalla lettura di queste pagine, che ha a che fare con quelle che Giambattista Vico, nella Scienza nuova, chiama «boria delle nazioni» e «boria dei dotti», tendenze assai ricorrenti nella storia e a cui non sfugge di certo il secolo che ci siamo lasciati alle spalle: l’idea che ad una nazione sia assegnato dagli dei o da Dio una missione da compiere (da qui le piazze inneggianti e i sacerdoti benedicenti); mentre i “dotti” di Vico sono stati, nel Novecento, tutti quei professionisti del consenso adusi a servire con la loro penna il dittatore di turno, nonché tutti quegli intellettuali propensi a mettere tutto il bene da una parte e tutto il male dall’altra.

Vincenzo Di Michele non guarda in faccia a nessuno: dove vede il male lo denuncia e lo documenta, attenendosi alla più scrupolosa verità dei fatti (verum-factum, per rimanere a Vico). Del resto, chi, che non muova da una preconcetta visione ideologica, può negare che il chiaroscuro è il colore dominante nella storia della vicenda umana?

Questi pensieri ed altri si ricavano dall’interessante scritto di Di Michele, dal quale si apprendono molte altre notizie che non si conoscevano e che al lettore non vanno anticipate. Il libro è di lettura assai scorrevole: una prosa scarna ed efficace come i fatti che vi si raccontano, a tratti incalzante, sempre chiara, realistica e aliena da ogni pedanteria.

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